Paola Cappa
Fili che s’intrecciano come nidiate di figli capricciosi, già proiettati verso il domani. Fili che, attraverso sapienti nodi, danno vita a trame colorate, oppure a storie destinate a tramandarsi. Lavora sui tessuti Bruno Ciasca e con semplici tele o jaquard intende trasmettere messaggi semplici, lieti e concreti. La sua arte si esprime in oggetti poveri – scarti di pezze, resti di attrezzi per telai, vecchie cornici – valorizzati però, anzi nobilitati, da fiocchi, raggi e sbuffi di viscose e cotoni. Sono paesaggi solari quelli che descrive. E spiagge, prati fioriti, cieli sereni paiono infatti fare capolino attraverso le trasparenze dei suoi lavori.
Un’ispirazione inedita? Non troppo. Già direttore amministrativo in due aziende tessili, Ciasca confessa di essere da sempre stato ‘fatalmente’ attratto dai tessuti: da quelli con cui sua madre, subito dopo la guerra, gli confezionava i ‘vestitini della festa’, agli impermeabili che si cucivano nella fabbrica del suo primo lavoro e, per concludere, alle stoffe più preziose e ricche che in anni più recenti vedeva comporsi sul telaio nell’intreccio magico delle diverse spole. «La stoffa per me è una seconda pelle che ci accompagna dalla nascita alla morte – osserva adesso – Per questo non possiamo semplicemente usarla e poi buttarla via, senza gratitudine per quel pezzo di strada più o meno lunga che ha percorso con noi». Quello che ha sempre colpito l’uomo è stata l’assenza di una fine. «Una pezza poteva anche, com’era logico, arrivare alla conclusione del suo ciclo – puntualizza – Ma subito gli si annodava insieme un altro tessuto in un processo, anche travagliato, ma privo di rotture». È il distacco che fa soffrire Ciasca; lui non ama le separazioni. «Per questo con la vita, quello che voglio celebrare è proprio la memoria. La volontà di usare e riutilizzare tutto al meglio: una passione che purtroppo oggi non mi pare condivisa».
L’artista recupera tutto: ruote di biciclette, infissi, catene, sedie un tempo gloriose. E ad esse lega i suoi arcobaleni di morbide tele e sete voluttuose. Anche una persiana vecchia, semmai raccolta tra un mucchio di rifiuti, può aver molto da dire: «Chissà quante mani l’hanno toccata – riflette Ciasca – Chissà quanti sguardi ha filtrato». Ed è il patrimonio antico degli oggetti che l’artista vuole salvare: «Per riportarlo intatto alla superficie di un’epoca troppo incline agli sprechi e all’oblio». Proprio per questo non c’è in nessuna opera il segno della sopraffazione: «Io ad un oggetto non aggiungo, né tolgo nulla. Non ardirei mai a trasformarlo. Semplicemente lascio che si esprima così come gli hanno chiesto i suoi padri: falegnami stanchi od umili tessitrici, in ogni caso persone capaci, profondamente innamorate del proprio lavoro». E mentre già pensa a nuovi sviluppi della sua attività, l’uomo si guarda attorno. «Mi piacerebbe destare interessi soprattutto nei giovani, che apprezzino quanto produco e che siano capaci di continuare a camminare sui miei sentieri, così da scoprirne i nuovi sbocchi». Come una pezza cerca di annodarsi ai fili di un’altra, così le mani di Ciasca si aprono verso il domani: «Io spero di avere ancora tanto da dare. Vorrei però trasmettere a mia volta quanto so. Perché anche l’arte, come il mestiere, è fatto di vita vissuta; di storie e di ricordi. Altrimenti è solo teoria: fredda e vuota.”
(Paola Cappa)